Posts written by Zefiro80

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    Che io sappia il codifensore domiciliatario, però, chiede istruzioni al collega titolare prima di agire.
    Ora, io non esercito ma quando ero praticante non ho mai visto alcun domiciliatario agire per conto suo senza prima avere istruzioni dal titolare. Anche quando la procura la si fa firmare ad entrambi i difensori per questioni di praticità, il domiciliatario sa bene che il cliente è suo solo nominalmente perché comunque il rapporto fiduciario col cliente è siglato in realtà col titolare che poi definisce le linee difensive e le strategie processuali.

    In alcuni casi il codifensore può anche avere iniziative proprie, ma sempre dietro il consenso del titolare o potrebbe contribuire rispetto ad una possibile migliore strategia difensiva, ma sempre dopo il confronto con il collega titolare. Secondo me rimane poco professionale il domiciliatario che agisce in completa autonomia, anche alla luce delle considerazioni che ho fatto sopra.

    Ribadisco che, a mio avviso, si ha una vera e propria responsabilità disciplinare solo se da questa leggerezza deriva un effettivo pregiudizio non più sanabile (es. vengono tralasciate delle domande che non potranno più essere introdotte nel giudizio) mentre probabilmente potrebbe non sussistere (o quanto meno ho più dubbi io se sussiste responsabilità disciplinare) se l'eventuale pregiudizio è sanabile (ad esempio le argomentazioni a favore del cliente risultano "deboli" giuridicamente, in tal caso c'è sempre il tempo di correggere il "tiro" dell'argomentazione - fin tanto che non cambia la natura della domanda o fin quando non incorrano altre preclusioni come quelle probatorie)
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    Bhe l'area dell illecito civile è ben più ampia di quella penalistica, quindi mi trovi d'accordo, salvo poi individuare comunque un danno ristorabile.
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    Mi limito ad utilizzare ragionamenti semplici.
    1) Il principio di tassatività vieta applicazioni analogiche delle fattispecie penali. Inoltre la condotta, per essere integrata, deve contenere tutti gli elementi previsti dal reato. In questo caso la condotta propria della rivelazione del segreto professionale consiste in alcuni elementi
    - L'autore del fatto:
    a) deve avere appreso la notizia "in ragione del proprio ufficio". Ciò implica inoltre che: a1] L'ufficio svolto deve prevedere un obbligo normativo che tuteli il segreto [a2] Che la notizia sia qualificabile come segreto [a3] Che il segreto, appreso in ragione del proprio ufficio, venga rivelato in violazione delle regole di condotta dell'ufficio svolto.

    2) La fattispecie di concorso ex art 110 può sì applicarsi all'extraneus, ma solo quando questi abbia contribuito alla commissione della fattispecie propria. In particolare l'avvocato Tizio che abbia rivelato il segreto a Sempronio avrebbe dovuto agire su istigazione di Sempronio stesso che con la sua condotta abbia concretamente determinato (o contribuito a determinare) l'avvocato a violare il segreto. Solo in tal caso Sempronio, extraneus, potrebbe aver concorso nel reato ex articolo 110.

    In questo caso, però, stiamo parlando di una condotta temporalmente successiva alla violazione del segreto. Sempronio non ha appreso la notizia (almeno dai dati forniti) "in ragione del proprio ufficio" e non ci sono stati forniti elementi da cui si possa desumere un concorso nel reato ex art. 110.

    Caso peculiare se Sempronio fosse anche lui avvocato. In tal caso, anche se non avesse appreso il segreto in ragione del proprio ufficio (es. tra Tizio e Sempronio c'è un rapporto amicale ma non professionale), sarebbe responsabile quantomeno sul piano disciplinare [anche se non sul piano penale per il principio di tassatività sopra citato].

    Queste sarebbe il mio personale ragionamento sul caso di specie.
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    Secondo me occorre distinguere alcuni piani
    1) Sul piano della lettura degli atti endoprocessuali da parte del cliente in corso di causa
    2) Sul piano della correttezza nei confronti del collega che ha ricevuto il cliente
    3) Sul piano della possibile responsabilità degli eventuali pregiudizi arrecati al cliente per aver steso un atto introduttivo del giudizio (con tutte le preclusioni successive che ne derivano ai fini poi della stesura degli atti successivi o della formulazione delle domande rivolte al giudice) senza la dovuta diligenza nel caso in cui si rilevi che un diverso comportamento avrebbe evitato tale pregiudizio

    1) Sul primo piano che è quello lamentato dal cliente: su questo punto ammetto di non avere una idea precisa delle posizioni del CNF in merito. Secondo me siamo in un terreno al confine.
    Il discorso è questo: il cliente non firma l'atto, ma firma la procura ad litem. Questo perché la difesa tecnica è un aspetto di competenza esclusiva dell'avvocato, proprio alla luce della professione che ricopre. Una eccessiva intromissione del cliente sul contenuto dell'atto potrebbe risultare dannosa per lo stesso cliente, per vari motivi. Quindi l'autore dell'atto è l'avvocato stesso. Però è anche vero che esiste un dovere, da parte dell'avvocato, di trasparenza nella sua opera. Quindi questo ricomprende doveri informativi rispetto alla strategia che intende seguire e le spiegazioni su come opererà, anche in un ottica di rispetto della natura fiduciaria dell'incarico dell'avvocato stesso.
    Quindi, a seconda delle situazioni, forse (almeno dal mio punto di vista) siamo in una area grigia che assume contorni diversi a seconda di quelli che erano gli accordi presi con il cliente. Se l'avvocato si era impegnato a far consultare l'atto al cliente prima di procedere, secondo me, c'è una lesione dell'affidamento ingenerato da tale impegno.

    2) In ogni caso una condotta del genere secondo me è una mancanza di correttezza nei confronti del collega. Il colloquio con il cliente non è solo un momento formale in cui si "mette una firma", ma è un momento in cui il cliente spiega la propria situazione ed illustra il problema che sta esponendo al professionista, elencando i vari dettagli e rispondendo anche ai dubbi o alle domande del professionista stesso utili anche a definire la strategia da seguire poi dal punto di vista processuale. Stilare un atto senza aver avuto alcun contatto col cliente, senza aver sentito il collega che aveva parlato con il cliente o aver letto una relazione rispetto agli elementi più importanti emessi in colloquio è francamente una condotta dal mio punto di vista censurabile, perché di fatto è una mossa azzardata.
    Praticamente è come stilare un atto senza sapere nulla della situazione in concreto, quasi come compilare un atto giudiziale fosse qualcosa di meccanico o automatico che si possa fare senza una conoscenza un minimo diretta della posizione affidata. Col rischio di perdere di vista elementi fondamentali anche rispetto alle eventuali chance del cliente di ottenere quanto avrebbe potuto, e di incorrere in decadenze processuali non più sanabili in un secondo momento. E in tal caso si passerebbe al punto 3

    3) La condotta dell'avvocato che ha stilato un atto introduttivo di giudizio con tale leggerezza potrebbe di fatto, in alcuni casi, pregiudicare irrimediabilmente le sorti di un giudizio. Certo... si tratta di casi rari, ma non certo impossibili. Ecco, in tal caso la mancata diligenza dell'avvocato è sicuramente censurabile da un punto di vista disciplinare perché si tradurrebbe, in tal caso, in una condotta concretamente pregiudizievole per il cliente che poteva essere evitata con un minimo di diligenza (anche solo informare il collega che aveva parlato con il cliente prima di agire... mi pare proprio il minimo)

    Edited by Zefiro80 - 24/2/2021, 12:30
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    Probabilmente la fattispecie penale potrebbe anche astrattamente essere configurabile, ipoteticamente parlando.
    Ma quello che interessa al tuo cliente è recuperare la disponibilità effettiva dell'immobile, e la strategia di ricorrere al diritto penale per accelerare i tempi non mi pare così tanto suggeribile, anche perché è una strada che è al limite dell'inammissibilità della domanda (a seconda del giudice potrebbe aderire o meno alla rilevanza penale del fatto).

    Senza contare che bisogna anche verificare che il reato in questione sia procedibile nei confronti di una banca. Ricordo sempre che la possibilità di esperire l'azione penale nei confronti delle persone giuridiche presuppone un processo contro persone fisiche che abbiano agito per suo conto e che la fattispecie penale sia una di quelle tassativamente previste per la cd. "responsabilità penale societaria".

    Quindi perché andare a scegliersi una strada complessa e incerta quando esiste una procedura apposita (civilistica) per recuperare velocemente la disponibilità dell'immobile in leasing e con una vittoria pressoché certa? (vero che non esistono certezze nel diritto... ma insomma... è una strada che non lascia tanti spazi interpretativi)

    Il tuo cliente deve agire contro lo spoglio, in via possessoria, e quindi agire per la reintegra nel possesso contro la banca. Questa strada ha tanti vantaggi
    1) Hai la certezza che il conduttore non ha nessun diritto ad inibire il conduttore dal fruire dell'immobile fin tanto che il contratto (che sia di leasing o di locazione poco importa) è in vigore se non c'è un provvedimento del tribunale che autorizza il conduttore in tal senso (di solito questo nelle locazioni avviene però con lo sfratto)
    2) Hai anche uno strumento agevole dal punto di vista delle tempistiche, perché le azioni possessorie seguono le regole delle azioni cautelari, quindi, trattandosi di procedimenti a cognizione sommaria, si risolvono anche in tempi relativamente rapidi
    3) In sede di azione puoi chiedere anche una moratoria, a livello cautelare, affinché si induca la banca a consegnare le nuove chiavi e chiedere il riconoscimento di una somma da riconoscere per ogni giorno di ritardo rispetto alla consegna delle nuove chiavi
    4) In questa sede puoi anche agire in via risarcitoria, anche adducendo l'abuso del diritto (se cambiare le chiavi è stato necessario,il rifiuto di consegnare le chiavi non è giustificato perché non è stato autorizzato dal giudice l'esclusione al possesso... qui l'abuso sta nel fatto di aver sfruttato la situazione per privare il tuo diritto del godimento del bene in chiara violazione dei principi di buona fede contrattuale)

    Il bello di tutto questo è anche che puoi tranquillamente omettere di ricostruire la vicenda perché gli elementi necessari per vedersi riconoscere il diritto sono pochi dati oggettivi. Basta dimostrare che vi fosse una situazione possessoria (anche a titolo di detenzione) e che tale situazione è stata compromessa e risulta concretamente impedita nel suo esercizio. Occhio ai termini di prescrizione perché le azioni possessorie si prescrivono velocemente (mi pare sia una decadenza di due anni ma vado a memoria quindi potrei sbagliare sul tempo)

    Non capisco perché ostinarsi per la strada penale in questo caso.

    Edited by Zefiro80 - 8/2/2021, 16:03
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    A parte che la dicotomia tra obbligazioni di mezzi e di risultato è ampiamente superata... nel senso che da anni in giurisprudenza si è arrivati a concludere che nessuna obbligazione è puramente di mezzi... anche laddove il risultato non è direttamente e completamente assicurabile (tipo la prestazione dell'avvocato o del medico) esso non è mai completamente neutro, ma va valutato (se negativo) su una serie di parametri per stabilire se vi è stato inadempimento.

    In ogni caso non capisco perché porsi questa questione, qui.

    Siamo di fronte ad un negozio giuridico di fatto è una sorta di cessione del contratto. Qui c'è la cessione della proprietà unita alla cessione della posizione debitoria nei confronti della banca finanziatrice... non capisco qui che senso avrebbe distinguere tra "mezzi e risultato" poiché qui la prestazione di cui si parla non si concreta in una azione (tipo quella del medico di effettuare una operazione che può andare a buon fine o meno) ma in una obbligazione pecuniaria (per cui la dicotomia mezzi/risultato non aveva senso manco quando era in voga questa dicotomia).

    Quindi non credo di aver capito la tua domanda.
    A mio avviso la questione è molto lineare (io tendo comunque a rendere le cose lineari e coerenti, senza impelagarmi in troppe disquisizioni teoriche)...
    Qui secondo me è più facile ricostruirla come cessione del contratto, se ho capito bene la vicenda.
    La fidanzata cede il proprio immobile al fidanzato. Il fidanzato acquisisce la proprietà dell'immobile e si accolla il debito nei confronti della banca, trasferendo su di sé la posizione debitoria, con altro contratto trilaterale (nel senso che partecipano, con ruoli diversi tutti e 3 i soggetti).

    In generale la libertà contrattuale implica proprio la libertà di decidere se vincolarsi o meno. Puoi vedere il gesto tra il fidanzato e la sua fidanzata come una forma di atto di liberalità, che però non ha natura donativa, anche perché di fatto la situazione giuridica complessiva si innesta in un contesto più generale di trasferimento del diritto di proprietà, e quindi assolve ad un interesse economico. Non ci vedo nulla di strano o di particolare che debba richiedere alcun inquadramento della situazione difforme da quello di un "collegamento negoziale" tra diversi negozi giuridici (potrei dire tra diversi contratti... qui probabilmente ogni singolo impegno è qualificabile come contratto)
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    Sì concordo al 100%:
    1) Prima di tutto perché c'è chi giustamente ha evidenziato delle problematiche costituzionali insite nelle modalità di previsione delle sanzioni penali (richiamo questa interessante discussione ed in particolare il primo intervento elencato)
    2) Anche la giurisprudenza, in alcuni contesti, ha dovuto riconoscere che il principio "ignorantia legis non excusat" non è sempre così assoluto, e va valutato rispetto alla effettiva possibilità di conoscere il precetto (es. con riguardo alla chiarezza o meno dei dispositivi e alle loro possibili interpretazioni). In un quadro così mutabile (si pensi a quante volte è cambiato il modello) non si può a mio avviso pretendere una conoscenza precisa e puntuale delle norme (a maggior ragione perché c'è il sospetto di un vulnus rispetto al principio di legalità)
    3) In ogni caso anche le dichiarazioni di consapevolezza delle conseguenze penali (prestampate, comunque) non hanno a mio avviso alcun valore aggiuntivo. Diciamo che al più (almeno secondo me) è una forma per affermare che, secondo il principio di responsabilità personale ex art 27 Cost, ci si sta muovendo nei limiti di ciò che le norme consentono, perché non facendolo si è consapevoli di incorrere in sanzione. Insomma: a mio avviso è un po' come il consenso informato: non basta una firma per poter asserire che ci possa essere davvero una piena comprensione totale.

    Nausicaa5675: Poiché io la dichiarazione l'ho scritta a mano, ne ho fatto una leggera modifica rispetto alla sua prima versione su alcuni punti fondamentali. Non ricordo però esattamente l'ultimo modello di dichiarazione cosa preveda esattamente. Mi pareva di aver capito che si doveva attestare di non essere mai stati rilevati come positivi o di non presentare i sintomi della patologia. Ovviamente ritenere falsa la dichiarazione di chi non sa di essere stato contagiato dal virus e poi si ritrova a posteriori positivo, sarebbe quanto meno aberrante e irrispettoso del principio di colpevolezza.
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    In questi casi, a mio avviso, bisogna ragionare sempre avendo in mente i principi generali di diritto penale, ed in particolare il principio di materialità.

    E' ovvio che non può essere sanzionabile penalmente (e credo nemmeno amministrativamente) il mancato possesso del modello di certificazione purché sia possibile, nel contenuto, certificare che gli spostamenti effettuati risultino essere compatibili con i divieti vigenti per ragioni di prevenzione sanitaria.

    Il modello di autocertificazione, quindi, dovrebbe avere quindi le seguenti funzioni:
    1) Funzione di dissuasione: indicare alle persone di scriversi (o stamparsi) l'autocertificazione da portarsi dietro significa aumentare (a livello psicologico) la consapevolezza della regola e a ponderare bene le uscite in base ad effettive necessità
    2) Funzione orientativa: il contenuto dell'autocertificazione (al di là di ciò che materialmente si scrive) serve anche a definire la tipologia di informazioni che l'agente accertatore richiederà alla persona controllata di certificare.

    Le responsabilità penali e amministrative, invece, non possono dipendere dal mero formalismo, ma dal contenuto sostanziale e cioè:
    1) Che le dichiarazioni siano vere (per non incorrere nel reato di falso)
    2) Che lo spostamento sia effettivamente dettato da ragioni compatibili coi divieto (per non incorrere nel reato di mancata osservanza di ordinanza di autorità)
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    Quello di cui tu parli non è comunque Marketing. Il Marketing è altra cosa.
    Il Marketing non è mai una attività rivolta ad un novero predeterminato di persone(quella che tu indichi nel tuo caso come community) ma è un assieme di varie attività di mercato svolte per una determinata azienda al fine di promuoverla al pubblico... come ad esempio pubblicità presso riviste specializzate del settore o presso guide turistiche o altri media (a seconda del tipo di attività dell'azienda), attraverso affiliazioni (es. offerte commerciali incrociate con sconto omaggio per azienda X su acquisti effettuati in azienda Y e viceversa) e altri strumenti.
    Con tutto rispetto, a primo acchito, pure il tuo progetto mi pare una forma di vendita piramidale, al di là del possesso di autorizzazioni o accordi commerciali, e al di là del fatto che il meccanismo non prevede una forma di vendita diretta. Non sono interessato a questo tipo di iniziative.

    Vorrei far notare che questo forum si rivolge ad aspiranti uditori e chi scrive dovrebbe essere lui per primo un aspirante (o ex aspirante) uditore, anche nella sezione off-topic.
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    Il tema è "la trappola delle vendite piramidali", non il marketing.
    Poi questo forum non si occupa di Marketing, ma sarebbe (anche se di fatto è pochissimo frequentato) un forum di aspiranti o ex-aspiranti uditori.

    Per tornare in tema della discussione aggiungo che a me, anni fa, mi telefonò una persona che avevo conosciuto anni addietro nel periodo di pratica legale (ex praticante legale anche lei). Quando mi telefonò per propormi una opportunità di lavoro già "alzai le antenne" nel momento in cui, dietro mie domande rispetto all'oggetto concreto della proposta, ricevevo puntualmente delle indicazioni molto fumose e poco concrete.

    Nonostante non rispose mai ad alcuna mia domanda specifica, asserendo che era meglio parlarne a quattr'occhi (nessun nome di azienda o di studio legale, nessuna indicazione sul tipo di attività prpoposta), e nonostante già mi ero immaginato che voleva rifilarmi il bidone di una vendita piramidale, volli presentarmi all'appuntamento, cercando comunque di darle il beneficio del dubbio.

    Inutile dire che anche a quattr'occhi rimase molto vaga e non rispose ad alcuna domanda specifica... mi consegnò una sorta di CD Audio strano che mi chiese di ascoltare. Ancora una volta (apparentemente) acconsentii alla richiesta, ma prima di ascoltare il disco feci due cose:
    1) Visto che nel disco c'era un nome di azienda la cercai sulla rete, ed ebbi la conferma definitiva che dietro a quel nome si nascondeva un sistema di vendite piramidali
    2) Feci una copia del disco (che avrei dovuto restituire) come sorta di "corpo del reato" nel caso in cui successivamente fossi stato ricontattato dalla stessa persona dopo la restituzione del disco stesso

    Poi ascoltai il disco solo per farmi due risate: anche il disco, ovviamente, non conteneva alcuna spiegazione sull'attività ma parlava genericamente di acquedotti e di pozzi.... come i discorsi che aveva fatto la persona in questione che mi aveva contattato personalmente (se uno fa una proposta professionale serie non è mai vago sull'oggetto dell'attività, sulle mansioni da svolgere, sul nome dell'azienda, etc etc... magari non entra nello specifico, ma di cosa si occupa te lo dice...).

    Devo dire che la cosa è stata particolarmente subdola, e nel disco c'era dietro chi sapeva bene come parlare del nulla con un linguaggio mellifluo in grado di manipolare la testa di una persona non adeguatamente preparata ad affrontarlo. Per mia fortuna ero già mentalmente orientato sul non volerne sapere nulla, quindi ho potuto ascoltare il disco senza correre rischi di "lavaggio del cervello".

    All'appuntamento per la restituzione del disco, l'ho restituito e ho detto, con cortesia, alla persona quel che ne pensavo (cercando di non essere troppo esplicito e senza usare alcun tono offensivo) chiedendoLe di cancellare il mio numero dal suo telefono e di non farsi più risentire. E per fortuna non si fece più sentire, quindi non dovetti mai utilizzare quella copia del disco che avevo fatto :)
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    Sono troppo pochi gli elementi secondo me per rispondere in un senso o nell'altro. Come al solito vado di ragionamento personale, quindi quello che esprimo sono solo considerazioni personali.

    A primo acchito direi che la responsabiltà da lite temeraria non c'è perché vi è un fumus sufficiente da non far ritenere "temeraria" l'azione. In questo primo quadro il fatto di aver trascritto la domanda di riduzione su tutti i beni astrattamente oggetto di riduzione troverebbe giustificazione nel principio di economia processuale, e quindi far giudicare tutta la questione in un'unica pronuncia anziché spezzettarla in più pronunce.
    Anche perché, se ad esempio tutti i beni - per ipotesi - fossero stati donati ad un unico soggetto, la proposizione della domanda solo su alcuni beni avrebbe comportato la decadenza dal poterla proporre successivamente sul resto.
    Poi, secondo me, l'elemento più forte contro il 96.2 è il fatto che è la ratio originaria della norma era quella di sanzionare proprio comportamenti "temerari" (cioè chi intenta causa pur sapendo di aver palesemente torto) e quindi un atteggiamento, per così dire, "doloso" (infatti si dice "senza normale prudenza").
    Qui, a mio parere, è difficile avere una esatta percezione di quanto fosse l'ammontare esatto della quota disponibile dell'eredità e stabilire che il valore di ben 4 immobili su 5, pur sommati insieme, non superava la quota di riserva dei legittimari. E sicuramente non si tratterebbe di un accertamento agevole da fare a priori.
    Quindi parlare di "temerarietà" secondo me qui non è condivisibile. Era invece lecito, a priori, (da parte di Tizio) attendersi che probabilmente ben più di un solo immobile potesse astrattamente rientrare nell'asse ereditario, salvo poi non avere una esatta percezione di quanto fosse riducibile, e pertanto cautelativamente proporre la domanda su tutto il patrimonio donato dal de cuius (onde non rischiare tra l'altro di incorrere in decadenze).

    A mio avviso non basta, insomma, che la domanda sia stata accolta in minima parte a giustificare la sussistenza di una temerarietà, atteso che la temerarietà della domanda va valutata tenendo conto di tutti i comportamenti e le situazioni sussistenti ex ante rispetto alla proposizione della domanda, e non ex post alla luce del provvedimento sentenziato.

    PS: la norma poi dice "Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto"... ora, salvo che la giurisprudenza non abbia fatto qualche interpretazione innovativa che non conosco, l'incipit dovrebbe escludere automaticamente l'applicazione nel caso di specie. Qui il diritto alla riduzione sussiste (quindi non è inesistente), mentre ciò che è contestato è su quali beni in concreto possa essere esercitato, non essendo ex ante certo quale sia il valore della quota disponibile sull'asse ereditario non soggetta a riduzione e concretamente il valore di quali immobili donati abbiano leso la quota riservata ai legittimari.
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    Mi pare ci siano poche idee chiare su cosa implichi l'art. 21 octies e la sua storia.
    Praticamente l'articolo 21-octies stabilisce (al secondo comma) un principio innovativo secondo il quale quando un atto avrebbe avuto sempre lo stesso identico contenuto anche se non fosse inficiato da un (apparente) vizio di legittimità, non ha senso permetterne l'annullamento se poi l'amministrazione - per sanare il vizio - non avrebbe altra scelta se non emanare un atto da contenuto identico (atto vincolato = atto che ha un contenuto che non potrà mai essere diverso rispetto a quello oggetto di eventuale impugnazione).

    Praticamente l'art. 28-octies comma 2 stabilisce una eccezione alla regola generale (che viene ricordata al comma 1, che di fatto non ha di per sè alcun contenuto innovativo) sui vizi di legittimità come vizi che inficiano l'atto in un'ottica di evitare spreco di tempo e di denaro (anche per l'interessato ricorrente) quando dall'annullamento dell'atto nessuno ricaverebbe alcun vantaggio.

    Anche la PA non può annullare tale atto semplicemente perché se lo auto-annullasse sarebbe costretta ad emanare un secondo atto a contenuto identico... che anche qui non avrebbe senso perché sarebbe uno spreco di tempo e risorse.

    Questo è in sostanza il senso dell'articolo. Parlare di natura sostanziale o processuale è una complicazione dottrinaria di cui francamente se ne poteva fare a meno... il senso del discorso è che la regola del 28/octies (comma 2) avrebbe natura sostanziale (e non procedimentale, come di norma) proprio perché introdurrebbe una ipotesi di legittimità dell'atto nel merito.... in sostanza l'atto vincolato che si trovi ad essere emanato con un apparente vizio, in realtà sarebbe un atto che ex art. 28 octies comma 2 sarebbe sostanzialmente valido, e quindi sostanzialmente legittimo (anche se formalmente viziato)
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    Devo dire che personalmente trovo invece molto interessante il nuovo scenario, soprattutto perché ora Conte ha di fatto una legittimazione istituzionale molto più forte di prima... prima era un mero mediatore tra due esponenti di forze politiche diverse portatrici di diversi interessi e di fatto aveva una legittimazione "debole"... ora conte di fatto potra avere l'autorevolezza di un presidente del consiglio dei Ministri a tutti gli effetti.... potendo esercitare in concreto il ruolo di capo del Governo.

    Lo trovo interessante perché non è un tecnico alla Monti (facciamo come ci dice l'Europa e basta e vengo scelto dall'alto de-responsabilizzando completamente le forze politiche in campo), ma è ciò che un esponente del governo dovrebbe essere... una persona capace (perché io, partivo molto perplesso nei suoi confronti, ma mi ha dato l'idea di saper bene il fatto suo) che cerca di perseguire degli obiettivi di indirizzo politico (condivisibili o meno questo lo si vedrà). Quello che dovrebbe essere un esponente di governo (non è un caso che gli esponenti del governo nel nostro ordinamento costituzionale non sono frutto di espressione popolare). Sono curioso di vedere quale direzione ora prenderà il governo e come Conte saprà utilizzare l'autorevolezza acquisita e in quali contesti.

    Condivido abbastanza comunque le tue perplessità su alcune nomine di governo (sicuramente frutto di mediazioni)... in specie di Maio agli esteri mi pare proprio un controsenso (penso che requisito minimo per fare il ministro degli esteri sarebbe conoscere almeno una lingua straniera, possibilmente l'inglese)...

    Non condivido invece l'opinione su Bonafede. Tra tanti ministri della Giustizia che abbiamo avuto negli ultimi anni, a me lui non è sembrato così male. Non sono poi così convinto che Pietro Grasso sarebbe stato meglio...
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    Ottima analisi, Annalisa
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    Da giurista abilitato e da persona che ha da sempre avuto una mentalità scientifico-matematica, nonché l'hobby della programmazione posso solo condividere l'articolo qui menzionato (e complimenti all'autrice del medesimo).

    Non ho mai condiviso (ed anzi ho sempre contrastato) quell'orientamento che ritiene il diritto una scienza, in primo luogo proprio perché il diritto si fonda sul metodo esegetico che è un metodo diametralmente opposto al metodo induttivo basato sull'esperimento e sulla riproducibilità di un fenomeno per verificare se una data scoperta sia o meno corretta.
    Il metodo esegetico proprio del diritto è invece l'esatto opposto di quello induttivo: la legge e le norme sono predeterminate dal legislatore e sta all'interprete individuare quella che meglio descrive il fatto e quella che meglio si applica allo stesso, apportando se necessario anche quelle correzioni ermeneutiche e sistematiche che si rendano necessarie a dirimere in maniera più equa una determinata controversia / questione di diritto / etc.

    Che poi l'utilizzo del sapere scientifico sia spesso imprescindibile per poter verificare che il fatto si sia verificato in un certo modo non cambia a mio avviso la sostanza di questa mia convizione, perché serve alla finalità di individuare le caratteristiche del fatto, che sono poi il presupposto per permettere all'interprete di capire meglio quali norme dovrà andare ad individuare e come applicarle.
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